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Al di là dei muri Al di là dei muri
Reali e invisibili: Reportage da Israele. Testo e foto di Maëve Romano. Foto in apertura: Il venditore di aquiloni e sullo sfondo, Jaffa, l’antica città... Al di là dei muri

Reali e invisibili: Reportage da Israele.

Testo e foto di Maëve Romano.

Foto in apertura: Il venditore di aquiloni e sullo sfondo, Jaffa, l’antica città araba.

Al di là delle alte barriere donne e ragazze, accompagnate dai numerosi figli, assaporano le prime calde giornate primaverili in riva al mare. Entrano in acqua bagnando le lunghe gonne nere imposte dalla rigorosa morale ultra-ortodossa. La spiaggia separata – anche conosciuta come spiaggia religiosa – è l’unica ad essere circondata da un muro di separazione il quale, secondo molti giovani di Tel Aviv, rovina l’estetica del litorale. Uomini e donne si dividono l’accesso a giorni alternati; solo il sabato, durante lo shabbat, i cancelli si aprono indistintamente a tutti gli utenti. “Quella è la spiaggia con la posizione migliore di tutta Tel Aviv: è sempre la stessa storia, (nda. gli ebrei ultra-ortodossi) si prendono sempre il meglio” esclama Moshe, un infermiere di origini sefardite, gettando una pallina al suo cane perché si tuffi in mare a recuperarla. Queste sue parole rispecchiano il sentimento astioso comune a molti israeliani nei confronti dei loro connazionali ultra-ortodossi. Poche settimane fa i giornali locali annunciavano con un certo sollievo che a seguito della formazione del nuovo governo, per la prima volta da anni, gli ebrei ultra-ortodossi sono stati esclusi dalla coalizione. In un Paese in cui a livello nazionale le priorità sono dettate dai problemi relativi alla sicurezza e dagli importanti disagi sociali, le esigenze che la comunità ultra-ortodossa reclama non possono che risultare pretenziose.

Non è raro sentire un israeliano lamentarsi delle condizione attuali – stipendi miseri e costi di vita altissimi – e contestualmente colpevolizzare la condotta degli ultra-ortodossi, i quali a spese dello Stato possono permettersi di dedicare la propria vita allo studio dei testi religiosi, senza lavorare. Gli ebrei ultra-ortodossi sono inoltre esentati dal servizio militare, invece obbligatorio per tutti gli altri israeliani di ambo i sessi. “Nell’ospedale in cui lavoro ci sono alcuni volontari ultra-ortodossi che vorrebbero poter prestare il servizio militare. È giusto che il governo dia loro la possibilità di entrare nell’esercito, e rispettivamente, obblighi tutti gli israeliani senza eccezioni a farne parte” conclude Moshe raccogliendo le sue cose prima di avviarsi verso casa. Le spiagge si svuotano a poco a poco mentre i moderni bar sulle vie centrali della città si trasformano in ritrovi per gente di tutte le età. Nel cielo, più a sud, i numerosi aquiloni ondeggiano riflettendo i raggi del sole.

La diffusione dell’obbligo generale del servizio militare è un tema ricorrente in Israele. Da un lato, a fronte della crescente instabilità lungo i confini del Paese, la difesa nazionale potrebbe rafforzarsi e le differenze tra i cittadini della stessa nazione verrebbero mitigate; dall’altro, però, la presenza degli ultra-ortodossi nell’esercito potrebbe cambiarne drasticamente non solo l’identità ma anche la struttura. Battaglioni separati per sesso, cibo strettamente kosher e ore libere da consacrare allo studio dei testi religiosi, sarebbero infatti solo alcune delle dispendiose riforme necessarie che, a livello governativo, giocano contro tale riordinamento. In Israele l’istituzione dell’esercito accomuna la maggior parte della popolazione ma al contempo getta le basi della frammentazione della società. Per i cittadini arabi israeliani, di etnia palestinese, lingua araba e di religione mussulmana – o in minor parte cristiana – il servizio militare infatti non è obbligatorio, e la maggior parte di questi decide di non assolverlo soprattutto a causa della discriminazione sociale nei loro confronti. Essi si sentono spesso dei cittadini di seconda classe e trovano solo un posto marginale all’interno della società israeliana. Vivono, al di là di muri invisibili, in città o in quartieri popolati quasi esclusivamente da arabi o immigrati e il più delle volte non hanno alcun tipo di interazione con i loro connazionali di fede ebraica.

Nella zona meridionale di Tel Aviv, contrariamente dal centro città, la presenza araba è massiccia. Sui prati lungo gli scogli siedono molte famiglie: mangiano carne alla griglia, chiacchierano vivacemente, fumano la profumata shisha, mentre i loro bambini, attratti dall’uomo che vende aquiloni, seguono da terra con gli occhi le sagome colorate che danzano nel cielo. Il corpo arancione di uno di questi nasconde per un attimo la veduta su Jaffa, antica città araba e a suo tempo importante porto sul Mediterraneo. “Ero solo un bambino al momento della fondazione dello Stato d’Israele. Oggi sono e mi sento israeliano anch’io“. Gli occhi di Mohammed, un anziano originario della settentrionale Akko, racchiudono i ricordi di una vita in bilico tra passato e presente. Mohammed s’interrompe per spegnere la sigaretta sotto i piedi, poi aggiunge: “Israele è il mio Paese, ma la Palestina è la mia casa“. Ogni mese guida fino a Gerusalemme per unirsi a un gruppo di attivisti israeliani impegnati in iniziative per la pace. Eyal, il giovane fondatore dell’organizzazione, dice che tra i suoi obiettivi c’è anche l’eliminazione della discriminazione nei confronti degli arabi. Mohammed lo ascolta: non nasconde il disagio dell’essere arabo in uno Stato ebraico e attraverso le memorie dell’infanzia ricorda la sua Akko quando ancora era parte di quella che geograficamente veniva chiamata Palestina.

Dopo un incontro organizzato nel villaggio palestinese di Beit Jala, Mohammed accetta da Eyal un passaggio in macchina per Gerusalemme. A loro si unisce anche Uri, attivista e informatico di Tel Aviv. Quando la loro auto viene fermata ad un check-point, a ridosso del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania, il giovane militare addetto ai controlli chiede a Mohammed di scendere, e dopo averlo trattenuto per qualche minuto, lo lascia ripartire assieme agli altri. “Quei ragazzini sono consapevoli che un arabo con cittadinanza israeliana deve essere trattato esattamente come un ebreo.” spiega Uri infastidito “Tuttavia ne approfittano ogni volta, solo per il gusto di umiliare”. Uri ha servito nell’esercito da ragazzo, e ricorda molto bene episodi come questi. Sul perché ha accettato di arruolarsi egli risponde nella maniera schietta e sincera tipica degli israeliani: “Chi non assolve la scuola reclute è considerato un cittadino di serie B. A quel punto non importa più se sei ebreo o arabo, importa solo che non hai svolto il tuo dovere nel servire il tuo Paese. Ero giovane e non ero pronto ad affrontare gli svantaggi di una vita da disertore“. Gli israeliani che optano per l’obiezione di coscienza sanno, fin dall’inizio, che saranno confrontati con molti ostacoli a livello sociale, dalla ricerca di un buon posto di lavoro a una sorta di marginalizzazione. L’esercito infatti non solo definisce i ruoli sociali, ma forma e unisce migliaia di giovani ogni anno, ed è una presenza costante nelle vite degli israeliani. I militari sono appostati ovunque all’interno del Paese, dai posti di confine, ai check-point in Cisgiordania, dalle alture del Golan fino alle sponde del Mar Morto. La costante della discriminazione interessa anche gli arabi israeliani, a prescindere dalla loro decisione di servire l’esercito o meno.

Il Ministero dell’educazione ha preso coscienza del problema ed ha introdotto nelle scuole delle lezioni volte ad affrontare il tema del razzismo. Sono infatti notevoli le difficoltà degli insegnanti nel gestire gli atteggiamenti discriminatori degli studenti verso i concittadini arabi, i quali pur non frequentando le stesse scuole degli ebrei si scontrano quotidianamente con questa tematica. Una denuncia è stata fatta anche ai tribunali israeliani, i quali tendono ad applicare nei confronti degli arabi pene e provvedimenti più severi rispetto a ciò che invece verrebbe deciso, a parità di reato, per un israeliano ebreo.

Nell’ultima settimana di marzo, Israele si prepara a festeggiare il Seder, la prima notte della Pasqua ebraica. Le stazioni degli autobus sono affollate di ragazzini con l’uniforme militare che si apprestano a raggiungere le famiglie per le festività. “Perché questa notte è differente dalle altre notti?” è la domanda che per tradizione il figlio più giovane rivolge alla famiglia durante la prima sera delle celebrazioni. Non molti, tra questi ragazzini col fucile e gli occhiali da sole, saprebbero rispondere alla domanda. Secondo Orr, una ventenne dai capelli rossi e dallo sguardo vivace, sono solo gli ortodossi a seguire scrupolosamente queste tradizioni. È soltanto al suo primo anno di scuola reclute e confida che preferirebbe che l’esercito continuasse con la politica di esenzione degli ultra-ortodossi. “Appartengono ad un mondo a sé, sarebbe complicata la convivenza” spiega con l’innocenza di una ragazzina che mal si abbina alla verde uniforme che indossa. Di discriminazione nei confronti dei suoi concittadini arabi invece non ne ha mai sentito parlare: “Non avrei problemi ad avere dei commilitoni arabi. Capisco però che la maggior parte di essi decida di non arruolarsi: il nostro è un esercito ebraico“. La società israeliana si riflette nella struttura dell’esercito quasi come in uno specchio. “Chag sameach – felici feste” saluta Orr, saltando sull’autobus che la porterà al kibbutz nei pressi del lago di Tiberiade dove vive la sua famiglia. Giovani come lei, forse ancora un po’ idealisti, sperano che la situazione a livello sociale possa migliorare in futuro; tuttavia, con la nuova opposizione formata dagli ultra-ortodossi e dai partiti arabi, le recenti elezioni sembrano aver delineato una tendenza destinata a non scomparire. La frammentazione all’interno del Paese è tangibile, e un dato di fatto che preoccupa molti è l’elevato tasso di natalità delle famiglie arabe e ultra-ortodosse, notevolmente più numerose della media israeliana. Tra alcuni decenni, in Israele, essi potrebbero rappresentare la maggioranza. Bambini che senza esitazioni sapranno rispondere alla domanda sulla notte del Seder; bambini che, indipendentemente dal quartiere di residenza, rincorreranno gli aquiloni. L’unità e l’integrazione sono il sogno di alcuni e l’incubo di altri, ma anche il compromesso a cui si dovrà arrivare per assicurare il futuro del Paese.

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