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Andrea Agassi quando il punto sulla vita è quello vincente Andrea Agassi quando il punto sulla vita è quello vincente
Dialogo con la rockstar del tennis sulla sua storia e sulla sua carriera, dal trionfo sui campi da gioco di tutto il mondo al... Andrea Agassi quando il punto sulla vita è quello vincente

Dialogo con la rockstar del tennis sulla sua storia e sulla sua carriera, dal trionfo sui campi da gioco di tutto il mondo al suo nuovo ruolo di benefattore e coach.

A cura della redazione.

Ci sono personaggi talmente sopra le righe da divenire vere e proprie icone del loro tempo. 

Individui che giocano secondo le loro regole, costringendo ciò che li circonda ad adattarsi al loro estro, alla loro stravaganza e alla loro genialità, giocando d’anticipo sui parametri, sulle aspettative e sui limiti della società, dei costumi, dei record. Individui che, colpo su colpo, allargano i confini del loro campo e diventano esempi per tutti coloro che li seguiranno.

Andre Kirk Agassi è uno di questi individui. Ancora oggi in molti si interrogano su chi sia stato quell’astro dalla cometa bionda che ha solcato il cielo del tennis in una parabola che ha sfidato ogni legge della fisica: dall’eccezionale ascesa iniziale, alla clamorosa caduta fino all’incredibile, sbalorditiva risalita culminata di nuovo allo zenit del podio mondiale. Ribelle, outsider… addirittura “rockstar”: le definizioni che Agassi si è sentito cucire addosso nel corso di vent’anni di carriera, dal 1986 al 2006, sono state tante, ma nessuna è riuscita davvero a racchiuderlo, a ingabbiarlo in un comodo e rassicurante schema precostituito. 

Agassi è soltanto Agassi. Ci sarebbe da scrivere un libro sulla sua vita, se non lo avesse già fatto lui. È un vero e proprio romanzo la sua storia, dall’infanzia sacrificata dal padre al culto del tennis, ai massacranti allenamenti della giovinezza, alle sue fughe dalla prestigiosa Bollettieri Academy e ai suoi atti sconsiderati di disobbedienza, fino ad arrivare all’oro, quello delle coppe, sfavillante oltre la rugginosa distesa di polvere rossa dei campi da gioco. 

Il 9 luglio 2011 Agassi è stato introdotto nella International Tennis Hall of Fame dopo aver vinto in carriera 60 titoli ATP (detenendo il primo posto nella classifica per 101 settimane), 17 titoli ATP Master Series e 8 tornei dello Slam. È uno dei soli otto giocatori al mondo ad essere riuscito a realizzare il Career Grand Slam e il primo in assoluto ad averlo realizzato su tre diverse superfici. 

Ad oggi Andre Agassi è l’unico tennista ad aver vinto complessivamente i tornei dello Slam, la medaglia d’oro del singolare olimpico, il torneo ATP World Championship e la Coppa Davis. 

Come ogni eroe ha dovuto confrontarsi con i suoi tormenti, da quelli familiari (non ha mai fatto segreto del suo contrastato rapporto con il padre, suo primo mentore nello sport) a quelli sentimentali e coniugali (fecero scalpore il suo matrimonio e poi il suo divorzio dalla modella e attrice Brooke Shields); ha avuto i suoi momenti di difficoltà, soprattutto quando sprofondò dal primo al 141esimo posto della classifica mondiale, ma anche le sue rivincite trionfali, come la rimonta incredibile con cui, nel giro di pochi anni, tornò numero uno. Non gli è mancato nemmeno un acerrimo avversario definitivo: Pete Sampras, con cui ha avuto ripetuti e lunghissimi scontri, divisi in vittorie e sconfitte, tra cui il celebre quarto di finale agli US Open del 2001, considerata da molti una delle più belle partite di sempre. Andre Agassi si è ritirato nel 2006. Oggi vive con i due figli e la moglie Stefanie Graf, a sua volta tra le più grandi tenniste di tutti i tempi, è diventato allenatore e coach per una generazione tutta nuova di giocatori, si occupa di beneficenza ed è stato eletto Ambasciatore dell’Eleganza Longines nel mondo.

Per rivivere in retrospettiva il suo straordinario percorso e per scoprire i suoi attuali impegni in ambito professionale e sociale, lo abbiamo raggiunto e ne abbiamo parlato con lui.

Andre, la tua carriera è stata qualcosa di unico, caratterizzata da vittorie eccezionali, sconfitte inaspettate e riprese sbalorditive. Rivedendo la tua carriera come un film, sembra che il colpo di scena sia stato l’elemento ricorrente di tutta la trama. Ripensando a tutto ciò che hai vissuto, che sensazione provi? Quale è stato il momento che ti ha fatto sentire più realizzato?

Vedi, ci sono momenti, anche sul campo da tennis, in cui si riflette un po’ su tutto a livello d’insieme. In quei momenti ho capito che ci sono due cose in particolare di cui vado molto fiero. La prima fa parte della mia carriera, che è stata una sorta di viaggio che mi ha portato dalla posizione di numero uno della classifica mondiale al numero centoquaranta… e poi ancora su fino al primo posto. 

Ne ho tratto una lezione di vita, poiché non pensavo che il primato fosse raggiungibile di nuovo dopo diversi anni bui ed è occorso davvero un grande impegno per riuscire a farcela. Si è trattato per me di una trasformazione legata ad altri aspetti della mia vita, come il divorzio e la maturazione dovuta all’età: essere riuscito a superare le difficoltà e gli avversari ancora una volta è qualcosa di cui vado orgoglioso. La seconda cosa è un momento preciso, rappresentato dall’opportunità di vincere per l’ultima volta, dopo anni, il Roland Garros a Parigi.

Sei sempre stato definito un ribelle, sia sul campo sia fuori. Spesso si ritiene che infrangere i limiti imposti dalle regole, andare oltre i dogmi, sia la chiave del successo, non solo nello sport ma anche in molteplici altri ambiti della vita, come per esempio nell’arte, disciplina che non a caso hai più volte accostato al tennis. Che cos’è per te la “ribellione” e come ha contribuito al successo della tua carriera?

Penso che lo spirito di ribellione nasca come reazione ad aspetti ed eventi che ti hanno segnato interiormente. Nel mio caso deriva da come ho vissuto il periodo della gioventù e dall’essere stato privato di molte cose ma anche dalla rigida disciplina degli allenamenti che mi faceva sentire in una sorta di “accademia militare”, con tutte le relative frustrazioni. Penso che lo spirito di ribellione mi abbia aiutato, almeno nei primi anni di carriera.

La risposta d’anticipo è sempre stata una delle caratteristiche chiave del tuo stile. Se volessimo vedere nel tennis una metafora della vita, potremmo trarne qualche insegnamento. Come la vedi?

Anticipare, in senso generale, può insegnare molte cose. Ad esempio a definire con più precisione le strategie, a risolvere i problemi, a comprendere meglio il contesto in cui viviamo, i nostri obiettivi. 

Può spingerci a impegnarci a essere una persona migliore, a interagire meglio con gli altri e a sfruttare le opportunità. Aiuta nella vita a comprendere di più i propri punti di forza e le proprie debolezze, tenendo però anche conto del fatto che un punto di forza, come il giocare d’anticipo, può anche rivelarsi una debolezza. Ci si può occupare così tanto del futuro da perdere di vista il presente e non viverlo appieno. Ovviamente questo è sbagliato, è un vero e proprio errore. Ecco perché ci vuole sempre equilibrio.

Negli anni ti è stata attribuita una frase per la quale sei spesso ancora ricordato: “Credere in me stesso mi fa vincere”. Un concetto motivazionale che riflette la tua personalità e la tua determinazione. Ma c’è un’altra tua celebre frase che esprime invece il tuo lato di “rockstar del tennis”, ovvero: “L’immagine è tutto”, che pronunciavi nel celebre spot in cui eri testimonial della Canon. Senti davvero tue entrambe queste frasi, apparentemente antitetiche? Come le concilii?

Sono entrambe il risultato di riflessioni. Penso che nessuna delle due frasi mi rappresenti completamente e vada considerata nel contesto. Credere in se stessi è importante ma è anche un’affermazione generica e bisogna domandarsi “come” ciò avviene: può anche capitare di viaggiare in altri luoghi dove le definizioni di successo possono essere diverse e dove esistono modi diversi di vivere vittorie e sconfitte. L’affermazione “l’immagine è tutto” implica il riconoscimento della fase della vita che si sta attraversando in quel momento e le fornisce motivazione.

La tua rivalità con Sampras negli anni ‘90 è diventata leggendaria: quanto è importante nello sport e nella vita la presenza di un avversario per superare i propri limiti e vincere contro se stessi?

Nello sport bisogna sempre tenere conto che qualcuno può batterti anche se tu sei il migliore. È un atteggiamento che serve a incrementare personalità e strategie acquisendo elementi sempre nuovi e che aiuta a guardare dentro noi stessi. Mi sono confrontato con avversari verso i quali ho provato talvolta invidia, oppure gratitudine, che mi hanno reso più sicuro di me stesso o mi hanno permesso di diventare più competitivo. Ogni incontro è complesso ma sempre e comunque fonte di ispirazione.

Nel 2003 sei stato il più anziano numero uno al mondo, primato che hai detenuto per 15 anni. A tuo parere, l’evoluzione di allenamenti, diete e attrezzi sportivi permetteranno in futuro di avere campioni sempre più anziani? Oppure la longevità agonistica sarà sempre legata soltanto alla genetica e al talento individuale?

Le capacità individuali, le skills, sono certamente essenziali, anche perché quando si avanza con l’età si manifestano comunque delle limitazioni e bisogna avere a disposizione degli assi nella manica da giocarsi. Il fattore velocità è determinante, come si nota in molti atleti, ad esempio in Federer: la sua velocità gli permette svariate opzioni in campo. Rilevante è il fisico su cui io in particolare ho sempre investito. Le nuove generazioni sono più “smart” e il loro approccio è più scientifico: le nuove tecniche possono infatti permettere di raggiungere certi obiettivi anche in meno tempo.

Dopo la fine della tua carriera di giocatore, nonostante il tuo dichiarato rapporto contrastato con il tennis, non hai abbandonato del tutto questo sport, dedicandoti all’attività di coaching. Come ti vedi nel ruolo di allenatore?

Quello di coach è un termine impegnativo perché non mi sento coinvolto a livello istituzionale e commerciale. Per me l’elemento essenziale è la soddisfazione nell’insegnare qualcosa, svolgere il ruolo del mentore, portare il giocatore verso l’obiettivo cui vuole arrivare e assecondare la sua dinamica. Questo approccio mi dà soddisfazione, anche perché rappresenta per me una novità. Infatti quando giocavo mi sentivo pesare addosso lo stress delle prestazioni ma non la pressione per l’organizzazione, la preparazione, l’individuazione degli obiettivi. Adesso, nel ruolo di coach o “mentore”, la situazione è del tutto ribaltata: non ho stress diretto ma avverto di più la pressione gestionale. 

Attualmente sei impegnato a tempo pieno con la tua “Andre Agassi Foundation for Education”, che assiste i bambini meno fortunati permettendo loro di studiare: perché hai scelto proprio questo settore per il tuo impegno sociale e la tua beneficenza?

Il mio destino nel tennis è nato in un certo senso da una mancanza di scelta, per questo il fattore istruzione è per me molto importante. Quando vedo i bambini che non hanno alcuna possibilità di scegliere per la propria vita, a cui è preclusa la via della formazione, del college, dell’università, bambini vittime dei danni ambientali, della violenza, della droga, delle condizioni economiche disagiate, penso che fornire loro opportunità di formazione significhi soprattutto offrire gli strumenti per meglio assecondare le loro aspirazioni.

Dal 2007 sei Ambasciatore dell’Eleganza Longines. Altri sportivi rivestono questo ruolo, ma la tua investitura come rappresentante di Longines è particolarmente importante in quanto è avvenuta in occasione del lancio della linea Sport di Longines. Che ricordi hai del tuo incontro con il celebre marchio svizzero?

La cosa che ricordo maggiormente è stato l’impegno di Longines in ambiti affini ai miei. Al di là del talento dell’azienda nel realizzare e commercializzare orologi di qualità, la filosofia Longines del fare e del “fare bene”, anche al di fuori del suo specifico settore manifatturiero, mi ha colpito. E ciò è avvenuto proprio mentre la mia Fondazione benefica si stava sviluppando. Abbiamo molti valori condivisi e posso dire senz’altro che esiste una sinergia fra Longines e l’attività della mia Fondazione in campo educativo.

Quali sono i valori che senti in comune con Longines?

Penso che, oltre a quanto detto sopra, l’elemento e il valore di fondo che condividiamo sia la disciplina nel lavorare bene e nel restituire alla comunità, attraverso eventi e interventi, una parte delle risorse che abbiamo conseguito con le nostre attività.

Photo : Andre Agassi ©Longines

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