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a cura di Francesco Arcucci, Professore Fra la morte e le tasse gli italiani hanno scelto le tasse. La morte corrisponderebbe all’uscita dell’Italia dall’euro....

a cura di Francesco Arcucci, Professore

Fra la morte e le tasse gli italiani hanno scelto le tasse. La morte corrisponderebbe all’uscita dell’Italia dall’euro. A questa uscita si accompagnerebbero effetti disastrosi dal punto di vista culturale, sociale, giuridico, politico, economico e finanziario. Senza avere la presunzione di trattare tali effetti nei dettagli (cosa che oltrepasserebbe i limiti di un articolo giornalistico), si vogliono ricordare i principali.

1) Culturali. La cultura, come è noto, rappresenta quell’insieme di valori, di usi, di abitudini, di cose che diamo per scontate, di visione del mondo, spesso di pregiudizi e di luoghi comuni, che caratterizza una certa popolazione. L’uscita dall’euro rappresenterebbe un allontanamento dell’Italia dalla cultura europea e un suo sprofondamento nella cultura mediterranea. Il mondo italiano, nella sua complessità, sarebbe visto come sempre meno integrato nelle correnti letterarie, artistiche e culturali dell’Europa. Già l’Italia e gli italiani presentano caratteristiche non sempre omogenee rispetto a quelle dominanti negli altri Paesi europeo – continentali. Tanto è vero che vale il detto “in Rome you do like the romans”. Ciò vuol dire che vi sono delle peculiarità, dei modi di fare, dei gesti e degli atteggiamenti nella cultura italiana che sono “molto italiani”. L’uscita dall’euro vorrebbe dire che, chi si reca in Italia entra in un mondo diverso rispetto a quello degli altri Paesi occidentali, un mondo in cui è difficile orientarsi.

2) Sociali. Con l’uscita dall’euro vi sarebbe un rimescolamento sociale di grandissime proporzioni. In particolare alcuni se ne avvantaggerebbero, molti di più ne risulterebbero svantaggiati. Vi sarebbero moti di piazza, contrasti sociali, tensioni di ogni genere in cui ognuno darebbe la colpa agli altri di quello che sta succedendo. La pace sociale sarebbe compromessa per molti anni.

3) Giuridici. Il passaggio dall’euro alla lira comporterebbe molti problemi in merito al modo in cui debbano essere pagate le obbligazioni, cioè i debiti assunti precedentemente. I contratti dovrebbero essere rivisti e ci sarebbe un ingorgo di cause di fronte alla magistratura ordinaria, ben più grande di quello che già caratterizza la Penisola.

4) Politici. I partiti che tendono a privilegiare gli interessi del Nord si scaglierebbero contro quelli che hanno come base elettorale il Sud. Nascerebbero infinite polemiche, accuse reciproche, rimescolamento di carte nell’elettorato, tensioni di ogni genere, instabilità e continue crisi di governo etc.

5) Economici. I maggiori problemi nascerebbero in campo economico poiché, se, da un lato, l’industria esportatrice se ne avvantaggerebbe, almeno nel breve periodo, dall’altro, vi sarebbero infiniti problemi sul fronte dell’inflazione che aumenterebbe moltissimo trascinando con sé un grande aumento dei tassi d’interesse. Inoltre, mentre con l’euro l’Italia era riuscita ad affrancarsi dal vincolo della bilancia dei pagamenti per cui poteva pagare le proprie importazioni in euro, che è moneta accettata in tutto il mondo, essa sarebbe ripiombata nella situazione nella quale per importare occorre procurarsi, precedentemente, riserve in moneta pregiata, tipicamente dollari. L’Italia sarebbe nuovamente soggetta al rischio Paese, cioè all’impossibilità di pagare i propri debiti a livello internazionale, non come pubblica amministrazione, ma come Paese. È quanto è successo in Argentina.

6) Finanziari. Anche in questo campo vi sarebbero problemi grandissimi, con fughe di capitali dovute al fatto che i risparmiatori cercherebbero di agganciare il valore della propria ricchezza finanziaria a una moneta solida. Il sistema bancario poi sarebbe colpito sia nella raccolta dei depositi, sia nella concessione dei prestiti, con le sofferenze che diventerebbero gigantesche, specie se calcolate in euro e comunque connesse con il grandissimo rialzo dei tassi d’interesse. La finanza pubblica italiana che si è avvalsa del fatto che gli oneri sul debito pubblico percentualmente sono scesi negli ultimi vent’anni dal 10% al 3,5%, si troverebbe a dover pagare nuovamente degli interessi probabilmente sopra il 10%. Si creerebbe quindi una spirale nella quale per finanziare il deficit pubblico gonfiato dagli interessi, la Banca d’Italia dovrebbe stampare nuove lire su larga scala. Questo determinerebbe un aumento dell’inflazione e quindi un ulteriore aumento dei tassi d’interesse che aggraverebbe la situazione disastrosa della finanza pubblica.

Come si diceva, nella scelta fra la morte, il cui scenario abbiamo appena descritto, e le tasse, gli italiani hanno scelto le tasse pur di restare nell’euro. La cosa poteva funzionare bene, se non fosse intervenuto un fatto imprevisto che ora descriviamo. Quando nel luglio 2011 si presentò per la prima volta la possibilità che lo Stato italiano potesse essere insolvente nel giro di poche settimane o al massimo di pochi mesi, la ricetta per evitare ciò sembrò chiara. Insolvenza voleva dire che le entrate statali e la faticosa vendita di nuovi titoli non erano sufficienti a far fronte al fabbisogno finanziario derivante dal pagamento dei titoli in scadenza e delle spese dello Stato (per stipendi, sanità, pensioni, oneri di ogni genere a carico del bilancio pubblico). È una tragedia quando l’insolvenza riguarda una singola impresa privata. È una catastrofe apocalittica quando essa riguarda lo Stato, non più capace di fornire i beni pubblici essenziali, come ordine, giustizia, difesa, istruzione, assistenza ospedaliera etc. Ma la ricetta sembrava semplice. Partendo dalla constatazione che gli italiani, dopo 60 anni di sviluppo economico che ha portato l’Italia ad occupare i primi posti nel mondo fra le potenze economiche, come popolo si fossero arricchiti, si pensava che bastasse spostare risorse dai cittadini italiani allo Stato, dai monaci ricchi al convento povero. Cento si toglieva ai cittadini, cento (con maggiori tasse) introitava lo Stato per evitare la situazione di insolvenza. Purtroppo non fu cosi. Allo Stato è vero, furono dati i cento che mancavano, ma la macchina produttiva si inceppò e tutto il sistema dei prezzi fu rivoluzionato. Il mercato immobiliare, che già nel 2011 non era in fase positiva, crollò con una minusvalenza media dei prezzi degli immobili di quasi il 40%. Il valore delle società quotate e non quotate subì una netta decurtazione. Di fronte all’incertezza del futuro gli italiani smisero di consumare, i ristoranti si svuotarono, le spiagge videro molti meno villeggianti, le automobili restarono invendute, così come altri beni di consumo durevole (lavatrici, televisori, computer, divani, elettrodomestici in genere etc.). I fatturati delle imprese crollarono del 10%, 20% anche nei settori sani. Gli investimenti si bloccarono. La disoccupazione imperversò portando milioni di famiglie nel disastro economico. Così, mentre lo Stato divenne un po’ più benestante con la cura Monti, i cittadini divennero molto meno ricchi o più poveri. L’apocalissi dell’insolvenza e quindi dell’uscita dall’euro e del ritorno alla lira (o nuova lira) emessa dalla Banca d’Italia, fu evitata grazie a Dio (e a Monti), ma il gioco non fu a somma zero (tanto più al convento, quanto meno ai monaci). Il saldo fu negativo in una misura che gli economisti di palazzo non avevano previsto. A questo punto la scelta fra la morte e le tasse è diventata più difficile. Cioè, se il quadro di uscita dall’euro è apocalittico, come abbiamo detto, anche l’attuale situazione presenta uno scenario non meno fosco. Il motivo, come si è detto, non è quello del pagamento di maggiori tasse, ma degli effetti di questo trasferimento di ricchezza dai monaci al convento che ha inceppato il funzionamento di tutta l’economia italiana, portando al disastro economico imprenditori, professionisti e famiglie. L’organo preposto alla tassazione in Italia (l’Agenzia delle Entrate) ha contribuito ad aggravare la situazione, poiché non si è limitato a impegnarsi nella percezione di maggiori imposte, ma con il redditometro e lo spesometro – che determinano automaticamente e presuntivamente il reddito degli italiani, senza considerare se tale reddito sia stato effettivamente ottenuto – ha terrorizzato il consumatore. E poiché il consumo rappresenta il 70% del PIL, non meraviglia se al crollo dei consumi abbia corrisposto il crollo del PIL, con l’effetto paradossale che all’aumento della tassazione abbia corrisposto un aumento del rapporto debito/PIL a causa della caduta verticale del numeratore. Tutto questo ha dato fiato alle trombe dei nemici dell’euro e degli euroscettici, per cui la società italiana è attraversata da correnti di antieuropeismo (spesso venato da ostilità verso la Germania) e di atteggiamenti autarchici del tipo: “e noi tireremo dritto con la lira”. Rimane comunque il fatto che, per quanto dolorosa sia l’attuale situazione economica e grave sia la patologia del malato, l’alternativa, cioè la morte, è comunque peggiore.

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