


Tra utopia, tragedia, mistero e realtà
A cura di Sebastiano B. Brocchi. Scrittore.
Foto in apertura: Aurélie Dupont ne “La Dame aux Camélias” di John Neumeier. New National Theatre Ballet Company (copyright Hidemi Seto).
Uno schermo bianco davanti e un titolo impegnativo, troppo impegnativo, alcune pagine vuote da riempire. Dover parlare, lo spazio di un articolo, di “qualche cosa di cui tutti hanno sempre scritto senza veramente mai sapere come fosse fatto”, come direbbe uno dei miei cantanti preferiti. Il problema maggiore è non incorrere nei soliti luoghi comuni o in stucchevoli melensità. Non siamo a San Valentino e non voglio un articolo con in sottofondo “La vie en rose”.
Mi piacerebbe… sì, mi piacerebbe, senza presunzione, poter raccogliere alcuni concetti, non tanti, me ne basterebbero due o tre, per aprire una parentesi sull’amore che a me per primo non suoni banale, e di conseguenza non lo sembri a voi. Dunque partirei da un bacio, ma non un bacio qualunque. Sì perché negli anni ’30, Federico Seneca, l’allora direttore artistico di una nota cioccolateria italiana, ebbe la grande idea di inserire in ogni “Bacio” (questo il nome con cui furono ribattezzati gli originali cioccolatini ideati nel 1922 da Luisa Spagnoli e inizialmente chiamati “Cazzotti” a causa della forma che ricordava la nocca di una mano) un cartiglio, ovvero un bigliettino, che contenesse un messaggio di affetto, calore, simpatia… insomma, un biglietto d’amore. Da allora quei “Baci” conobbero un successo travolgente, tanto che oggi, dopo più di 90 anni, ne vengono prodotti non meno di 300 milioni all’anno. E se vi può apparire strano cominciare un discorso sull’amore da un cioccolatino anziché da Tristano e Isotta o dal Canzoniere di Petrarca, in realtà anche in una cosa così semplice si nasconde una riflessione piuttosto seria: perché le persone si fanno questo genere di regali? Cioccolatini con messaggi d’amore, oppure racchiusi in scatole a forma di cuore, o persino accompagnati da statuette in plastica dorata che ritraggono Cupidi armati d’arco e frecce? E che dire dei fiori? Ma questi, in fondo, sono solo degli esempi. Di regali, spesso decisamente più inutili di una confezione di dolcetti, che si fanno in nome di un amore sincero o presunto tale, straripano letteralmente i negozi. E non si tratta di una prerogativa del genere umano. Avrete sicuramente visto in qualche documentario una coppia di animali che si scambia offerte di cibo o realizzazioni complesse come pegno d’amore (pensate ai superbi “giardini” realizzati dall’uccello giardiniere per stupire la sua bella!).
Tanto negli uomini che negli animali, questa abitudine può essere letta in due modi: il primo è quello più prosaico, ovvero che gli sforzi profusi siano finalizzati all’accoppiamento. Il secondo, ed è quello che qui ci interessa maggiormente, si applica soprattutto a quelle manifestazioni d’affetto che non sono direttamente collegabili al desiderio sessuale o a garantire la continuità della specie. I commentatori dei documentari naturalistici le chiamano “attenzioni per rafforzare il legame di coppia”. Negli esseri umani si tratta di quei regali o gesti d’amore estemporanei, ma anche di quelle parole, poesie, canzoni, frasi di conforto o di stima, che dimostrano come non tutti e non sempre siano interessati soltanto al tornaconto tangibile di un rapporto, ma siano pronti a dare qualcosa di sé stessi all’altro per il semplice piacere di vederlo felice. Se un cioccolatino o un mazzo di rose possono essere gesti di poco conto, c’è chi per amore compie azioni a dir poco commoventi. Quante volte abbiamo visto o sentito di persone, nel mondo, che per amore accettano di dedicarsi quasi a tempo pieno al loro partner anche se quest’ultimo è gravemente malato o soffre di un handicap che non permette alla coppia di avere una vita “normale”? Eppure, malgrado le difficoltà e i mille motivi di mortificazione, è possibile cogliere in queste persone un sentimento, un legame, che nulla ha a che fare con il desiderio carnale. Avete presente il film “La Tigre e la Neve” di Roberto Benigni? Il poetico, struggente, intenso e incrollabile sentimento che lega Attilio a Vittoria? L’amore che può attraversare tutto, anche il dolore, è questo il sentimento al quale alludono le promesse che si scambiano gli sposi sull’altare, ma che purtroppo nella maggior parte dei casi rimangono lettera morta in quanto il matrimonio è la rappresentazione istituzionale, burocratica, di questo sentimento. Ma il matrimonio non fa il cuore delle persone, e le persone, si sa, spesso promettono ciò che non sono in grado di mantenere.
Il sentimento d’amore, ed esso soltanto, può costruire un legame, determinare cosa sia una famiglia, sancire dei patti, venire in soccorso di chi si sta perdendo. Ma in quanto sentimento forte e non sempre indirizzato in senso costruttivo, raramente governabile e spesso, molto spesso confuso con altre passioni, l’amore e tutto ciò a cui viene erroneamente dato questo nome può portare ad eccessi tragici e distruttivi. Tanto da domandarsi (e in molti se lo sono domandato), se l’amore romantico esista davvero o se non sia, piuttosto, un’illusione rincorsa da tutti e nondimeno irraggiungibile. Un’illusione che a dipendenza delle situazioni può prestare il suo nome e la sua maschera a una (troppo) vasta gamma di rapporti interpersonali, talvolta piacevoli, talvolta persino violenti e drammatici. Lo stalker non ritiene forse sé stesso un “innamorato”? E lo stesso non vale per il possessivo geloso e manesco? Diversi laudatores temporis acti si lamentano del fatto che la gioventù attuale imbastisca e mandi a monte storie d’amore via sms e nell’arco di qualche settimana. Ma è davvero solo da biasimare l’atteggiamento dei giovani? Era realmente più vero e giusto l’amore ai tempi delle grandi passioni travolgenti per le quali si smetteva di mangiare o, nel peggiore dei casi, ci si toglieva la vita? Sinceramente credo che se da un lato l’amore nell’epoca di smartphone e social network sia forse più sbrigativo, sbiadito, impersonale rispetto a quello descritto da Chretien de Troyes nei suoi romanzi cortesi; d’altro lato è anche una forma di maturazione rispetto a un modello sentimentale che andava, per forza di cose, superato. Le nuove generazioni hanno almeno in parte imparato a non subire la dittatura dell’amore romantico come modello di massima aspirazione senza il quale sia impossibile continuare a vivere; hanno sorpassato in una certa misura gli stereotipi fiabeschi con tutto il retaggio che questi si portavano dietro, ossia la vana ricerca del principe azzurro e della donna angelo. A dirla tutta, mi sembra preferibile sapere che due adolescenti si lascino con un sms piuttosto che si tolgano la vita come protagonisti di tragedie shakespeariane… bisogna ammettere che nei giovani si sia fatta strada l’ammirevole consapevolezza che gli amori della vita reale non siano e non debbano essere le copie conformi di modelli astratti a lungo propinatici, e che la fine di una storia non sia una disgrazia senza via d’uscita. Ciononostante, guardiamoci dal ridurre l’amore a freddo cinismo. I grandi modelli letterari del passato ci avranno pure sviato sotto certi aspetti, ma ricordarli e ammirarli ancora oggi può insegnarci che l’amore va vissuto con pienezza e senza risparmiare sulle emozioni. Gli amori delle favole, dei libri e dei film, anche se imbellettati con la cipria della finzione, possono sempre ricordarci che per amare ci vuole coraggio, forza d’animo, creatività e impegno. Che si deve essere disposti a tutto per mostrare la misura dei nostri sentimenti. Romeo e Giulietta continuano ad affascinarci come è giusto che sia, tanto che la loro storia è ancora oggi oggetto delle più diverse rivisitazioni. A fianco di quelle teatrali o cinematografiche, esiste un’arte non meno attraente che ha reso ai due giovani eroi romantici un omaggio se possibile ancor più raffinato. Qui, la struggente storia degli adolescenti di Verona è affidata non alle parole ma alla musica e ai gesti. Sto parlando del celebre balletto che ricalca le note di Sergei Prokofiev e la coreografia di Rudolf Nureyev. Proprio di questo balletto ho avuto l’onore di discutere con una delle sue interpreti più note e applaudite a livello internazionale, l’Étoile Aurelie Dupont.
Aurelie inizia a studiare danza all’età di 10 anni presso la Scuola di Ballo dell’Opéra de Paris e appena sei anni dopo viene chiamata a far parte del Corpo di Ballo dell’Opéra. Dopo una rapida successione di premi e qualifiche, nel 1996 è nominata Premiére Danseuse e, nel 1998, all’età di 25 anni, diventa Étoile. Nel 2005 debutta nel ruolo di Giulietta nell’allestimento di “Romeo e Giulietta” di Nureyev con Hervé Moreau, una delle storie d’amore più universalmente note e rappresentate, tanto da essere assurto, potremmo dire, all’immagine di archetipo romantico.
Parlando di amore romantico, è impossibile non pensare a Romeo e Giulietta. Perché, secondo te, questa storia ha attraversato i secoli rimanendo comunque in grado di parlare alle attuali generazioni?
Per me, quel che c’è di romantico nella storia di Romeo e Giulietta, è che si tratta di due adolescenti che scoprono l’amore. La storia è estremamente violenta, drammatica e tragica. Penso che sia una storia toccante e lo sarà per le generazioni future, perché evidentemente questo soggetto resta nel cuore delle nostre vite. Le storie d’amore, che non mancano, ma che devono scontrarsi con delle impossibilità culturali e religiose: questa resta, persino nel 2013, una realtà.
Che esperienza è stata per te interpretare Giulietta, che emozioni hai provato?
Il ruolo di Giulietta mi ha davvero appagata. Ho sempre avuto il desiderio di ballarlo. Il ruolo mi piaceva e la musica di Prokofiev mi fa piangere… È la mia prima “tragedia”, ho amato tutto di questo ruolo: la freschezza di Giulietta, la sua innocenza, il suo coraggio, il suo accanimento, la sua maturità e le sue convinzioni. Avevo bisogno di interpretare tutto questo nel momento in cui ho avuto questo ruolo. Era vitale, come un grido che aspettavo, allora sono stata pronta a lanciarmi senza esitazione.
Un conto è raccontare una storia attraverso le parole, diverso invece è doverla comunicare attraverso la danza e la mimica del corpo. Il balletto, inoltre, non è un racconto vero e proprio ma la sublimazione di una storia in movenze e gestualità dal forte impatto simbolico. Secondo te, in che modo il balletto può “raccontare” l’amore?
Il balletto di Romeo e Giulietta racconta l’amore grazie agli interpreti ma anche e soprattutto grazie alla musica. La musica mi dà la voglia di danzare e di comunicare, e il pubblico è toccato dal quel che ne risulta. È il dono di fare una buona coreografia sulla buona musica. Proprio come la scena di un film può essere percepita in modo molto diverso in funzione della musica che l’accompagna. Sicuramente non c’è solo questo, ma è un inizio essenziale per arrivare al pubblico. In seguito viene l’interpretazione dell’artista, l’evoluzione del suo personaggio. Sono certo una ballerina, ma quando interpreto Giulietta ritrovo l’adolescente che sono stata e la donna che sono. Penso… nella testa mi arrivano delle parole, delle lacrime, dei sospiri… ho il mio testo personale, espresso dal mio corpo su una musica che mi dà ispirazione, e questo fino alla fine del balletto. Oltre a questo c’è anche un po’ di magia… come un buon film di Charlie Chaplin: non abbiamo il suono, ma tutto è talmente chiaro!
Come Étoile hai impersonato decine di personaggi. Qual è stata la storia che tra tutte hai preferito raccontare attraverso la danza, e perché?
Il ruolo che ho preferito interpretare è Margherita Gautier ne “La Signora delle camelie”. Ci sono spesso delle singolari sincronicità nella vita, e questo ruolo è arrivato al momento giusto. È un ruolo di maturità, che necessità maestria. L’ho affrontato senza complessi e senza pudore. Ero pronta a dare tutto e ho dato tutto. È anche il mio balletto preferito, perché c’è tanta recitazione quanto danza e la recitazione mi appassiona.
Se le parole di Aurelie Dupont, così come la leggiadria dei suoi passi di danza, rispecchiano un ideale ancestrale di amore romantico, quello di una forza poetica e quasi sovrannaturale che muove l’animo degli uomini; viviamo in un tempo in cui anche l’amore rischia di diventare qualcosa di misurabile, analizzabile, magari persino modificabile in laboratorio. I nuovi orizzonti della scienza sembrano in grado di dimostrare, sulla base di oggettivi riscontri, che gran parte se non la totalità delle nostre emozioni siano il frutto non di qualcosa di metafisico, bensì di assolutamente corporeo. Ne parlo con una vera e propria eminenza nel campo, il Professore Emerito di neurofisiologia Piergiorgio Strata. Conseguita la laurea in medicina e chirurgia nel 1960 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dal 1965 al 67 collabora con J. Eccles a Canberra e Chicago. È stato professore di fisiologia all’Università di Pisa (1967-75) e poi a Torino (1975-95), dove è professore di neurofisiologia dal 1996. Le sue ricerche riguardano in particolare la neurofisiologia del cervelletto, i meccanismi della memoria e la plasticità neuronale. Dal 2008 è presidente dell’Istituto nazionale di neuroscienze e direttore dell’EBRI (European Brain Research Institute). Ha ricoperto numerosi incarichi come rappresentante del Governo italiano in comitati internazionali e programmi di ricerca sulla salute. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui nel 2004 il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei.
Sempre più spesso la biogenetica cerca di spiegare i sentimenti come il risultato di reazioni fisiche e chimiche dovute all’azione di certi ormoni nel nostro organismo. La fedeltà in amore, ad esempio, invece che come espressione di un animo virtuoso, verrebbe vista in quest’ottica come la risposta alla maggiore o minore presenza di ormoni quali la vasopressina, la dopamina o l’ossitocina. Che tipo di esperimenti hanno portato a queste conclusioni e come le dobbiamo interpretare?
Le neuroscienze di oggi hanno dimostrato una correlazione sempre più stretta tra i fenomeni fisici del cervello e i fenomeni mentali, tale da non lasciar vedere spazi per fenomeni mentali al di fuori della materia. Diventa sempre più chiaro che i cosiddetti valori morali, che tu chiami virtuosi, sono scritti nei nostri geni e trascritti nei circuiti del cervello. Ed anche gli animali seguono regole che noi abbiamo ereditato da loro come l’attaccamento e la cura dei figli. Senza queste regole morali non vi sarebbe stata l’evoluzione e la conservazione della specie. Hanno pertanto destato molto interesse esperimenti condotti su due animali dall’aspetto molto simile, come l’arvicola di prateria e quella di fattoria, rispettivamente monogama la prima e poligama la seconda. Nel cervello della prima abbondano i recettori dell’ossitocina rispetto alla seconda. Da qui esperimenti rivolti a studiare gli effetti dell’ossitocina sul comportamento umano anche al di fuori della malattia con risultati che hanno fatto concludere che questo ormone rende più fedeli, ma anche più cooperativi e fiduciosi del prossimo.
Di questo passo arriveremo ad intervenire sui rapporti sentimentali come la chirurgia estetica opera sull’aspetto fisico? In uno scenario neanche troppo fantascientifico, si potrà modulare in laboratorio la fedeltà del partner (rendendo disoccupati molti consulenti di coppia…)?
In effetti, come l’aspirina ci far stare meglio perché ci toglie un processo infiammatorio che ci provoca dolore, non stupisce che altre molecole possano agire sul nostro comportamento e sulla nostra morale. Attenzione, tuttavia a non usare il “fai da te”. Ogni sostanza da somministrare all’uomo deve essere autorizzata all’uso dopo ampia sperimentazione prima sull’animale e poi sull’uomo. Nel caso dell’ossitocina, ad esempio si è dimostrato che la somministrazione prolungata di ossitocina nell’arvicola monogama riduce il legame e lo potrebbe anche sciogliere. Questa regola che per ogni funzione esiste una dose ottimale è molto diffusa in biologia e medicina (né poco né troppo!). È certo che il futuro ci rivelerà molte sorprese. Nonostante un diffuso senso di ritenere il naturale come migliore rispetto all’artificiale, la scienza sperimentale ci ha cambiato la qualità della vita in meglio e lo farà sempre di più.
Quali potrebbero essere, invece, le importanti applicazioni mediche di uno studio più approfondito di questi ormoni? Si parla ad esempio delle potenzialità dell’ossitocina nella cura dell’autismo…
Se l’ossitocina è importante nel legame fra individui, ci si è chiesti se la somministrazione di ossitocina, di solito tramite spray nasale, possa migliorare i sintomi di patologie che comportano un’alterazione delle relazioni fra individui come avviene nell’autismo e nella schizofrenia. I pazienti autistici, per esempio, hanno difficoltà nell’interazione con gli altri individui pur essendo intelligenti e avendo un normale uso del linguaggio. Ci si è chiesti se la somministrazione di ossitocina può migliorare questi rapporti. Vari lavori recenti hanno dimostrato un miglioramento per alcuni parametri comportamentali. La problematica è attualmente in fase di sviluppo e la somministrazione deve avvenire sotto controllo nell’ambito di una sperimentazione autorizzata.
Certamente parliamo di una visione della vita, e dell’essere umano, filtrata attraverso gli occhiali di una scienza positivista, la quale, forse, non convincerà tutti e in particolare quanti riconoscono nell’esistenza anche una forma di magia che sfugge ai sensi e al metodo empirico. Non convincerà, ad esempio, quanti vedono nell’amore romantico quella sorta di divinità imperscrutabile che “move il sole e l’altre stelle”.
Il lungo e difficoltoso sentiero della ricerca dell’Amore puro, trova uno dei suoi capitoli sicuramente più interessanti nel movimento culturale dei Trovatori provenzali e, in seguito, degli Stilnovisti italiani. Un periodo di grande fermento e rinnovamento letterario, che vide tra l’altro la nascita di una fiorente poetica in lingua volgare, in cui all’amor cortese, al cor gentile e al servizio della donna amata viene tributato un onore paragonabile ad una devozione religiosa. Una letteratura che si esprime in modo decisamente ermetico, tanto che secondo diversi studiosi i “Fedeli d’Amore” avevano costituito una sorta di setta iniziatica che comunicava attraverso il criptico linguaggio della poesia. Una scelta, quest’ultima, dovuta in parte alla necessità di proteggersi dal temibile sguardo dell’Inquisizione, e in parte alla devozione dei poeti stessi alla forma linguistica perfetta capace di elevare il discorso dalla sfera della comunicazione quotidiana. Uno dei più noti esponenti di questo movimento fu Dante Alighieri, che ai Fedeli d’Amore dedica il sonetto d’apertura della “Vita Nuova”.
Al poeta fiorentino e i suoi molti enigmi è ispirato l’ultimo lungometraggio di Louis Nero, “Il Mistero di Dante“, prossimamente nelle sale. Per voi lettori di “Four Ticino”, alcune anticipazioni esclusive raccolte da un mio interessante dialogo con questo talentuoso e geniale regista italiano.
Laureatosi al D.a.m.s nel 1999, Luois Nero è membro permanente della giuria del David di Donatello dal 2004. Ad oggi ha realizzato, prodotto e distribuito quindici lungometraggi, oltre a numerosi corti, usciti regolarmente in sala, in home video ed in televisione. Come regista ha realizzato “Golem”(2003) con Moni Ovadia, “Pianosequenza”(2005), “Hans”(2006) con Daniele Savoca, Franco Nero, Silvano Agosti, “La Rabbia”(2008) con Franco Nero e il premio Oscar Faye Dunaway, Giorgio Albertazzi, Philippe Leroy e musiche del premio Oscar Louis Bacalov. “La Rabbia” è stato candidato ai David di Donatello 2007. Nel 2012 ha realizzato il film “Rasputin” film biografico sul famoso occultista russo. Il suo ultimo film “Il Mistero di Dante” (in uscita nei prossimi mesi) annovera nel cast i premi Oscar F Murray Abraham, Franco Zeffirelli e Taylor Hackford. I suoi film hanno partecipato ai più importanti festival internazionali.
Che ruolo hanno i Fedeli d’Amore nel tuo ultimo film, “Il Mistero di Dante“?
Il film è proprio nato dal mio incontro con un gruppo che ritiene di essere il loro erede spirituale. Probabilmente l’essenza dei Fedeli d’Amore è rimasta inalterata e si sono adattati solo esteriormente al mondo contemporaneo. Il film si prefigge, attraverso l’esame delle manifestazione della tradizione iniziatica occidentale, dagli ordini di cavalleria ai Rosacroce, di contribuire ad apportare nuova luce su un lato sconosciuto dell’opera di Dante. Il film segue un’ideale trasformazione temporale avvenuta nell’adattamento della tradizione Primordiale. Credo che dietro l’apparente tematica del sentimento amoroso in realtà si celi qualcosa di più profondo. Il sentimento amoroso è un velo dietro il quale, i Fedeli d’Amore e prima e dopo di loro molti altri, hanno celato significati più importanti che necessariamente devono essere messi sotto forma metaforica per essere metabolizzati da chi legge. La ricerca dell’Amore assurge a simbolo di ricerca della “Verità”.
Su Dante e la “Divina Commedia” è stato detto e scritto di tutto, sono state ipotizzate le più diverse teorie e si sono indagati i più oscuri risvolti. Eppure, potremmo dire che ci troviamo ancora di fronte alla punta dell’iceberg per quanto riguarda le ulteriori possibilità di approfondimento sia sul personaggio che sul libro? Cosa ne pensi?
In realtà l’opera di Dante è quasi sempre stata indagata in modo superficiale. Soprattutto nel cinema ci si è sempre limitati a raccontare il personaggio storico e non la realtà che si cela dietro i versi strani. “Il Mistero di Dante” parte proprio dal senso anagogico-esoterico per spiegare i vari livelli di interpretazione e il vero motivo per cui Dante ha scritto “La Divina Commedia”. Partendo dal senso interiore, guidati da dei novelli Virgilio, cerchiamo di indagare ciò che non si è mai voluto dire di questo grande compositore di “poesia”.
In che modo consideri questo lavoro su Dante il naturale proseguimento del tuo percorso cinematografico? Come si colloca in relazione alle tue precedenti opere?
Ogni mio film cerca d’indagare cosa c’è dietro le apparenze. I miei protagonisti sono sempre dei ricercatori della “Verità”, alcuni seguono la via tradizionale, altri sono costretti ad inventarsi o a seguire percorsi molto più impervi. Dante è il naturale proseguimento della mia ricerca sul linguaggio e sulla rivalutazione della grande “Arte”.
I tuoi film sono caratterizzati in genere da atmosfere gotiche e “noir” (sembra il caso di dire che nomen est omen….). Con queste premesse, in che modo si inserisce, se si inserisce, la tematica del sentimento amoroso?
Nell’affrontare la tematica amorosa preferisco sempre partire dal considerare l’Amore nel suo senso più nobile, ovvero come ispiratore di Saggezza. Questo significato non nega affatto l’esistenza o l’uso dell’amore inteso in senso più materiale. Nell’Amore inteso come principio tutto è compreso solo che ancora non è manifestato. Tutte le possibilità sono ancora aperte. Nei miei film ogni personaggio a suo modo è un veicolatore di “Amore”, o come suo alleato o come antagonista che ha per scopo l’ostacolare il protagonista per farlo migliorare ed aprirli gli occhi sulla realtà.
Tempo fa hai dichiarato, in un’intervista, di non essere ancora in grado di stabilire se “Il mistero di Dante” sia più un film o un documentario. Oggi, a riprese concluse, sei riuscito a individuare un genere d’appartenenza o comunque un modo di spiegare quest’opera?
Purtroppo ancora oggi non riesco ad attribuire un genere al film, credo che rimanga un crossover tra cinema reale e documentario, dove tutto ciò che appare non è come sembra.
Anch’io, dovendo mettere la parola fine al sentiero di queste pagine, rileggendo la curiosa e prolifica amalgama di concetti emersi intorno al perno dell’amore romantico, non sono sicuro di riuscire a stabilire dove volesse realmente andare a parare questo discorso e se, di fatto, esistesse una vera meta. La mia speranza, tuttavia, è di aver sollevato degli argomenti, e delle domande, condiviso delle riflessioni e ospitato le opinioni di tre personaggi che sono, ognuno nel suo campo, degli illustri portavoce della cultura europea; e con tutto questo avervi regalato dei momenti di confronto in cui possano essere affiorate anche e soprattutto dentro di voi delle idee sull’amore. Amore che a ben guardare, prendendo ancora una volta in prestito le parole di Max Pezzali, potrebbe essere “il solo senso di essere qui, l’unica ragione per cui valga la pena di fare tutto il viaggio”.
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