


A cura di Sebastiano B.Brocchi.
Le opere dell’artista bolognese in esposizione all’IMAGO Art Gallery.
Spesso una delle chiavi per leggere l’arte moderna è quella di interpretare un oggetto nella valenza che questo assume se estrapolato dal suo contesto abituale. Così quel semplice frammento di quotidianità rubato al normale fluire delle nostre concatenazioni logiche, d’un tratto estirpato dal terreno della consuetudine ed esule nella ricerca di un significato, ci appare improvvisamente (e talvolta inesplicabilmente) insignito del titolo nobiliare d’oggetto d’arte. A conferirglielo non è la bellezza, non è la difficoltà tecnica della sua realizzazione. Non è nulla in realtà, se non la misura della genialità dimostrata o pretesa in quella sua inattesa conversione. Se poi all’aspetto visionario di questo stravolgimento torna a unirsi un inequivocabile impatto estetico, assistiamo all’armistizio di una guerra dei cent’anni tra la critica e le impressioni discordanti: è la pace tanto ambita tra l’intenzione e la forma, dove la bizzarra epifania dell’idea astratta o astrusa recupera il suo prezioso abito da cerimonia fatto di quelle immagini efficaci e seducenti.
È in seno a questo benvenuto o bentornato connubio tra il concettuale e il bello che si diramano gli esperimenti artistici del bolognese Alessandro Malossi (1993), nati sotto la buona stella di una modernità a misura di social, di una grafica giovane e forte, di un gioco di ammiccamenti alla moda e ai brand così squisitamente figlio della pop art di Warhol e Lichtenstein.
La pubblicità è un labirinto di siepi nel giardino segreto del design, dove s’incrociano, s’inseguono e poi si perdono le definizioni tra prodotto d’arte e prodotto commerciale; e se da un lato ci sembrerà d’incontrarvi arte svilita dalla mescolanza con le ragioni del profitto, osservando da un’altra angolazione potremo vederci, al contrario, un’economia sollevata dal mero fatto monetario per assurgere alla rilevanza di evento culturale. Questo in genere avviene quando un brand si fa portavoce di valori e stilemi talmente riconoscibili, condivisi, fondanti della propria identità sul piano mediatico così come nell’esperienza emotiva del pubblico, da diventare esso stesso un momento artistico per l’immaginario collettivo, facendosi dunque musa e fonte d’ispirazione dei creativi.
L’azienda smette allora di vendere soltanto oggetti: essa regala memorie legate a momenti di vita, distilla emozioni da quei ricordi, le innalza a monumenti della percezione quotidiana. Allo stesso modo l’acquirente cessa di essere unicamente fruitore materiale di un prodotto di consumo, diventa parte di una storia, testimone di un evolversi di tecniche e maestrie professionali messe al servizio delle nostre esigenze certo, ma più ancora dei nostri sogni e desideri. Termine – o forse punto d’origine – di questo processo è l’oggetto stesso, il prodotto e la firma che porta impressa, dove un nome o un logo non rappresentano una persona, un ideatore, bensì l’insieme di un “popolo” di lavoratori che, nei più vari settori d’impiego, hanno contribuito alla sua nascita. Ebbene, quando questo proliferare di sforzi creativi dà vita a oggetti in grado di diventare personaggi attivi e non più soltanto passivi elementi di sfondo nelle trame delle nostre esistenze, vedremo spuntare le vere icone.
Simili oggetti sembrano pretendere per sé le attenzioni, le speranze e le aspirazioni di un’umanità che, se da un lato sembrerà ad alcuni schiava di un povero materialismo governato da idoli di plastica e tecnologia, ad altri potrà apparire invece motivata ad attribuire ai brand un potenziale che trascende largamente il fatto concreto, che vada a estrapolare e reinventare continuamente la bellezza collaterale dagli anfratti più reconditi delle (tutto sommato limitate) materie prime a nostra disposizione. Una religione di scaffali e vetrine, che espone ai suoi devoti l’idea di ciò che vorrebbero vedere prima ancora che essi sappiano di volerla, li illude di essere l’ultima sintesi dei loro bisogni il tempo che basta a preparare la successiva icona, per alimentare in eterno la fiamma del perfezionamento e rinnovamento formale, del concetto stesso di novità e modernità.
L’arte di Alessandro Malossi va sicuramente a innestarsi nel solco di questa concezione fluida e proteiforme, per assorbire discipline e spazi espressivi normalmente posti oltre gli incerti confini dell’azione pittorica, plasmare inediti luoghi d’incontro tra la sorpresa visiva, le tematiche nerd, i risvolti fashion, la filosofia dei brand e la percezione instagrammabile del mondo. Si inserisce in quest’ordine d’idee, lo fa proprio, e al contempo lo mette in discussione dall’interno, un po’ come la vespa che depone il suo uovo nel ventre del bruco, poiché se da un lato l’espressività del giovane bolognese appare esteriormente tutta improntata alla convivenza-connivenza con i colossi della moda o del consumismo, in realtà essa è la prima a ergersi portavoce di domande fondamentali che c’impongono di riconsiderarne almeno in parte l’approccio e i contenuti, invitandoci a mettere in discussione i capisaldi stessi del mondo di cui si nutre.
Come fossero Neteru egizi o Dei indù reinventati, divorati per essere risputati dall’instancabile macchina del progresso (similmente al distopico Moloch di F. Lang), gli animali fatti di scarpe e le tante altre amenità partorite dalla colorata giungla mentale di Malossi ruggiscono sì, da un lato, la loro fiera appartenenza a un sistema di sdoganamento popolare del bello a tutti i livelli, ma con ciò non dimenticano di osservarci come edipiche sfingi ponendoci di fronte a quesiti cui forse saremmo in difficoltà a rispondere. Primo fra tutti “cosa salverebbe un ragazzino oggi se il mito di Noè fosse attuale?”. Allora ecco che l’arte riesce ancora una volta a svestire il costume da preda per mostrarci di aver conservato le zanne e l’istinto predatore, poiché sotto un mimetismo mainstream resta incredibilmente viva e feroce l’innata predisposizione alla libertà di veicolare messaggi incisivi, irriverenti, talvolta taglienti. Gli animali di Malossi prendono vita da costrutti artificiali, molecole industrializzate, in un perturbante accostamento tra le forme suggerite dall’illusione ottica e i singoli tasselli costituitivi di quei miraggi faunistici.
Sono le catene mitocondriali di un’ormai globalizzata Silicon Valley, in cui attribuiamo il valore di “cose vive” ai nostri serragli di arnesi e gingilli hi-fi, e dove abbiamo relegato la natura a imbottigliato campionario di stili di vita dimenticati. Abbiamo appiattito i paesaggi al ruolo di sfondi dei nostri album e trasferito la biodiversità animale a una galleria di emoticon sui nostri smartphone, senza accorgerci o senza curarci del fatto che quegli animali – come suggeriscono le composizioni artistiche di Malossi – non abbiano odore né versi con i quali farsi udire, e che non possano quindi diventare un lascito per la nostra sopravvivenza come le loro controparti animate.
Il Nostro si concentra però anche su sperimentazioni di altro tipo, in particolare prendendo come spunto di partenza il vero e maggiore caposaldo della comunicazione visiva del nostro tempo (il selfie, o comunque la fotografia autoreferenziale) e facendo della propria immagine l’argilla primateriale di un movimentato gioco di stravolgimenti iconografici. L’artista stesso diventa quindi anche strumento e risultato dell’opera, il suo corpo diventa il laboratorio in cui testare le più diverse bizzarrie e trompe-l’oeil, l’abbandono della forma definita e definibile per abbracciare poliedriche trasformazioni d’apparenza e di concetto. Un continuo Solve et Coagula dell’identità nell’alambicco di pixel di Photoshop, per diventare uomo totale, che assume in sé anche tutte le variabili possibili del non-umano, traslandosi in simulacri zoomorfi, oggetti inorganici, flessibili nonsense, per imprimere qualcosa di sé allo spazio e per restare da quest’ultimo impresso, un dare oblativo e reciproco tra soggetto e contesto dell’immagine in formazione.
A Lugano, dal 22 ottobre 2020 e per tutta la stagione invernale, alcune opere di Alessandro Malossi sono esposte durante la mostra DIALOGUES presso IMAGO Art Gallery in Via Nassa 46. Inoltre una personale dell’artista, intitolata JUNGLE POP, sarà inaugurata il 26 novembre 2020 all’hotel The View.
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