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Matteo Pugliese e la breccia sull’ inesplorabile Matteo Pugliese e la breccia sull’ inesplorabile
A cura di Sebastiano B.Brocchi. Le opere dell’artista milanese in esposizione all’IMAGO Art Gallery. La memoria viene solleticata dalle immagini dell’arte come la corda... Matteo Pugliese e la breccia sull’ inesplorabile

A cura di Sebastiano B.Brocchi.

Le opere dell’artista milanese in esposizione all’IMAGO Art Gallery.

La memoria viene solleticata dalle immagini dell’arte come la corda di una cetra, e non sappiamo cosa quel tocco sarà in grado di produrre, quali vibrazioni entreranno in risonanza con i fuggevoli riflessi di momenti mai davvero perduti. Osservo la materia tormentata dallo scalpello, un corpo che si agita quasi agonizzante come un Laocoonte, mutilato della sua tradizionale completezza formale per essere partorito – direi quasi traslato – nello spazio polimorfico della mente che immagina. La scultura è, qui, la sillaba primaria di una comunicazione intuitiva, “porzione minima indispensabile per completare mentalmente l’unità di senso” (B. Osimo) come avviene nella lettura. Brutalmente tranciata al crepuscolo del visibile e all’alba dell’intelligibile. 

Osservo l’opera e vengo raggiunto da un ricordo con la vividezza di una folata d’aria improvvisa che irrompe alla finestra. Ero bambino e un grosso tomo faceva capolino con i suoi toni di blu su uno scaffale della libreria di mia madre. Un’edizione di “Personology”, di Goldschneider ed Elffers. Stando alla sinossi, quel libro metteva in relazione il destino delle persone alla loro data di nascita. In realtà non conoscevo il contenuto e sarei stato troppo piccolo per leggerlo, ma ciò che adoravo di esso era l’illustrazione in copertina. Aveva un non so che di magico! Dava l’idea che in quel libro dovesse essere racchiusa qualche verità importante, di quelle conosciute solo da chi studiava le stelle. Scoprii molto più tardi che la tavola di copertina avesse una storia molto interessante ed enigmatica. È chiamata Xilografia Flammarion, opera di autore anonimo che comparve la prima volta in un trattato di C. Flammarion nel 1888. Diversi importanti autori, anche in seguito – tra cui C. G. Jung – vollero inserirla nelle loro opere. Il suo elemento più rilevante è sicuramente il personaggio umano sul lato sinistro dell’immagine. La didascalia ricorda come “Un missionario medievale racconta di aver trovato il punto di congiunzione tra il Cielo e la Terra”, e noi lo vediamo immortalato nell’atto di gattonare su un prato fino al punto in cui sembra imbattersi nella “cortina” del cielo, la solleva, la penetra o la squarcia, tanto da poter sbucare con il capo dall’altra parte. Cosa sia esattamente quell’altra parte è difficile a dirsi, poiché verrebbe da riconoscervi altri cieli diversi da quelli visibili. Da un lato potrebbero richiamare i cerchi del Paradiso dantesco, oppure rappresentare quell’Iperuranio o mondo delle idee pure di cui parlava Platone nel “Fedro”, quella zona al di là del cielo (da cui il nome) ove nascono e risiedono le idee nel loro stato essenziale. 

Matteo Pugliese

Mi sono concesso questa introduzione per avvicinare il mondo artistico di Matteo Pugliese quasi spiandolo attraverso una cortina come fa l’uomo della xilografia, e non entrandovi a piedi pari. La mente si protende quando deve sporgersi al davanzale dell’arte, la finestra del dato concreto percepibile ai sensi è fin troppo angusta, ci si sente incastrati tra le paratie della ragione, ben ancorate ai mattoni della logica di una realtà decodificata dall’occhio, ma ci rendiamo conto che quella sia una stanza ove ristagni l’aria viziata di nozioni fin troppo didascaliche. L’arte  che venga semplicemente descritta è un panorama senza sbocchi, è rinchiudere gli incantesimi della fata ignorante (come la definì Magritte) entro le quattro mura dello stile e della tecnica, mentre noi vorremmo aprire le ante per prendere una boccata d’aria tra intuizioni di ben più ampio respiro, giocando con i meccanismi occulti, armeggiando con gli ingranaggi invisibili evocati dai soggetti, nel tentativo di avvicinarci al Segreto così ben taciuto (e così incisivamente modellato nell’omonima opera che Pugliese plasma nel 2007). 

Perché, dunque, guardando i lavori dello scultore – nato a Milano nel 1969 – il mio pensiero ha voluto incamminarsi a ritroso tra i sentieri della memoria fino a quella stellata xilografia ottocentesca? Perché Pugliese, in molte delle sue visioni, descrive – silenziosamente, se davvero si volesse sostenere che le sculture non abbiano una voce propria – esattamente quel punto preciso trovato dal missionario medievale. Non per forza il punto di congiunzione tra il Cielo e la Terra, ma in senso molto più vasto e assoluto il punto in cui un essere umano si renda conto di trovarsi a un confine e lo valichi. 

I personaggi dello scultore lombardo sono spesso colti nell’atto di oltrepassare una frontiera, non importa se fisica o mentale. Sono lì, sospesi in quel limbo magico della metamorfosi in cui non si è più totalmente di qua e non si è ancora del tutto dall’altra parte, in quell’oltre anelato o anche soltanto sbirciato con animo curioso e indagatore, istante dinamico per eccellenza che nella scultura si congela per farsi fotogramma di un processo vitale. 

Una collezione che riceve l’emblematico titolo di “Extra Moenia”, ammiccando a una celebre locuzione latina utilizzata per indicare ciò che si trovava fuori dalle mura della città. Qui però il concetto viene sublimato nell’oltrepassare mura non più urbanistiche e prive di una geografia, erette in una cartografia dell’anima con architetture emotive. Mi verrebbe da citare il titolo del saggio di G. C. Costabile: “Oltre le mura del mondo”, lì riferito ai rapporti tra immanenza e trascendenza in Tolkien, qui riadattato all’atto esteriorizzato nella plastica scultorea dell’artista italiano, in cui le mura – non a caso bianche, lisce e anonime – si fanno barriera per antonomasia privandosi di qualsivoglia caratterizzazione. “White shores are calling” (Bianche spiagge stanno chiamando), canta la voce di Annie Lennox nella commovente “Into the West”, in conclusione all’ultima pellicola della trilogia cinematografica de “Il Signore degli Anelli”, ove sono piuttosto espliciti i riferimenti all’ultimo viaggio dell’anima; e anche la grezza materia degli uomini di Pugliese sembra contorcersi, quasi disfacendosi negli ultimi rantoli di paura al cospetto del mistero escatologico. Eppure dove si trova la morte? Al di qua o al di là? Quei corpi sono in transito per affrontare la loro personale catabasi, o fuoriescono dal loro Ade per raggiungerci? Ma vi è effettiva differenza, o ogni nascita è anche una morte e viceversa a seconda del lato della parete da cui la si osservi? Impossibile dire quale sia l’effettiva direzione del loro incedere, stabilire se questi corpi stiano faticosamente uscendo dalle pareti, come lacerando la membrana di una placenta che permetta loro di affacciarsi su nuovi orizzonti, o se, al contrario, essi vengano risucchiati da quelle pareti come corpi assorbiti da sabbie mobili senza ritorno; e forse proprio in questa dicotomia è insita la consapevolezza che la stessa ambiguità sia connaturata a ogni trasformazione. 

Custode Elvetico II

Dice il proverbio che “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”, eppure la vita stessa è il flusso di un rinnovamento costante, il susseguirsi di soglie di morte, rinascita e cambiamento, di abbandono di vecchie pelli di serpente sul sentiero delle orme già percorse, e di passi mossi nella direzione di un futuro cui nulla può sottrarsi. Il Tempo non si sceglie. L’arrivo del domani non si può rimandare, e il domani reca con sé, per forza di cose, una via nuova che può essere anche una vita nuova, un nuovo modo di pensare, di essere, di concretare le intenzioni attraverso l’atto. Proprio l’atto ci fa sporgere dalla parete immacolata del pensiero in potenza: non a caso, in una meravigliosa reinterpretazione del Cenacolo leonardesco, Pugliese mette in scena soltanto la gestualità delle mani ed esse si rivelano narratrici sufficienti. Come nel capolavoro michelangiolesco della Sistina, in cui l’incontro teurgico della componente umana e quella divina si manifesta in tutta la sua forza proprio grazie alla potenza visiva delle dita di Adamo e Yahweh che vorrebbero sfiorarsi, poiché nell’umano il pensiero divino trova la sua incarnazione e nell’azione, in particolare, il Tempo diviene immagine mobile dell’Eternità. Ma anche nell’affresco del Buonarroti vediamo appunto un minuscolo spazio bianco tra le due dita, rappresentazione di quella distanza che può essere abissale o infinitesimale a seconda di come la si guardi, schermatura della verità non per forza impenetrabile. Che siano le pareti bianche di Pugliese o lo specchio di “Alice Through the Looking Glass”, affinché l’occhio possa vedere è necessario aprire questa palpebra, affinché il diamante possa risplendere è necessario liberarlo dalla sua ganga minerale. La liberazione dalla crisalide ci ossessiona da sempre, fino a generare derive fantascientifiche e reali distopie scientifiche come la crescente e ipnotica corsa al transumanesimo, in cui addirittura l’umanità giunge al paradosso estremo di volersi progressivamente liberare della componente umana per evadere dalla prigione della propria imperfezione. Salvo forse scoprire che non fosse quella la prigione, anzi: fragilità e imperfezione umana potrebbero essere dei valori da tutelare come sancta sanctorum di un’autenticità e un’unicità che rischierebbero di perdersi irrimediabilmente, proiettandoci in un mondo di automi senza nome catalogati con fredde sigle alfanumeriche, menti convertite in software. 

Qui interviene un’altra grande parentesi nell’arte di Matteo Pugliese, quella dei massicci e saldi “Custodi” dalle fogge multietniche e le proporzioni pingui, allusive a un convoglio centripeto della forza vitale (anziché centrifugo come avviene per molti di noi). Poiché, sebbene una parte di noi necessiti l’attraversamento palingenetico di quelle pareti che diventano dunque porte in una sorta di costante superamento della condizione acquisita; vi è anche la necessità di imparare a preservare ciò che non va lasciato indietro durante il cammino, a ritrovare quel centro, o ci ritroveremmo a un punto di non ritorno rendendoci conto che in quella scrematura della nostra essenza, alla fine, sia andata perduta l’essenza stessa. Vi è una sottile eppure fondamentale differenza da non trascurare tra perfezionamento e miglioramento: quando perseguiamo unicamente il perfezionamento, lasciandoci cesellare dall’implacabile scalpello della competizione, dell’antagonismo, di inarrivabili canoni estetici o etici, in realtà ci stiamo proiettando verso modelli illusori e distanti, con il rischio di dimenticarci la materia prima di partenza e perderne totalmente le peculiarità intrinseche. Ed è lontana da Pugliese l’eco di un ellenismo algido e altero, gli preferisce sempre l’eredità di stampo romano in cui l’individuo vince sull’ideale, il difetto dettato dall’emotività s’impone sulla compostezza del kalòs kagathòs. Si è sempre portati a immaginare guardiani della soglia frapposti tra noi e i risultati che ci prefiggiamo, che tutelino in qualche modo quegli obiettivi dagli accessi indesiderati degli indegni, e non pensiamo mai che potremmo essere noi, talvolta, a doverci tutelare dal conseguimento dei frutti delle nostre aspirazioni. Pensiamo di essere disposti a tutto per essere giudicati pronti allo step successivo, alla promozione a un gradino più alto, sempre più alto, nella carriera, nella sapienza, nella prestanza fisica, nelle performance in qualunque ambito, e a questo fine rubiamo tempo ed energie preziose alla coltivazione di ciò che ci rendeva diversi dai modelli preconfezionati. Forse i guardiani della soglia, i custodi che ci precludono certi passaggi e accessi, vogliono talvolta tutelare noi o le condizioni che ci stiamo affrettando a lasciare. Nella loro ieratica impassibilità sembrano chiederci se siamo “pronti” a varcare certi confini, non per forza ritenendoci immeritevoli, bensì interrogandoci sulla convinzione di trovare effettivamente, in quell’altrove, il meglio. 

Talvolta il meglio non è nell’altro e nell’altrove, nel di più, nel maggiore. Può trovarsi, al contrario, nella preziosità minuta dell’iniziale, del presente, del minore e del dettaglio di cui eravamo frettolosamente disposti a liberarci. Lente d’ingrandimento dell’essenziale, la scultura di Pugliese ci mostra infatti come, in certi frangenti, i tesori più fastosi si trovino incorniciati tra le ali di un coleottero, e lo fa ingigantendo il coleottero stesso per proiettarlo all’altezza del nostro punto d’osservazione o per rimpicciolire noi, inserendovi non a caso diversi richiami alle icone dell’infanzia. Perché nella vita ci si può dover chinare per raccogliere sottigliezze fragili, percepibili dalla prospettiva di un insetto, ed è forse questa la famosa porta piccola cui alludono tanti scritti in cui fiaba e sapienza esoterica si mescolano sino a confondersi. “Chiunque conservi la capacità di cogliere la bellezza non diventerà mai vecchio” osservava Franz Kafka proprio nella sua metamorfosi da insetto.

Alcune opere di Matteo Pugliese sono esposte a Lugano, presso IMAGO Art Gallery in Via Nassa 46, durante la mostra CONFRONTI fino a fine settembre 2021.

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